Il dipinto reca iscrizione a pennello in alto a sinistra: "MDLXVI / RMS. D. GREGORIUS / BARBADICUS PAT.iv VEN.us TER. / ABBAS GENERALIS".
Questo notevole dipinto inedito rappresenta una significativa testimonianza dell'elevato standard della ritrattistica veneziana di secondo cinquecento. La tela si pone al di fuori del dominante canone tizianesco, per aderire alla linea meno potentemente introspettiva, ma di non minore eleganza e compiutezza formale, segnata dall'arte di Paolo Veronese. Prevale qui un'intonazione accostante ed empatica del pittore nei confronti dell'effigiato, pur nel rispetto dei connotati di nobiltà e severità previsti dai codici della ritrattistica ufficiale di personalità che rivestono ruoli socialmente rilevanti. Una pista di grande interesse, ai fini sia dell'attribuzione, sia dell'individuazione del ritrattato, è rappresentata dall'iscrizione posta in alto a sinistra, che però sembra fornire informazioni controverse: se la data riportata, 1566, risulta infatti del tutto congrua con lo stile dell'opera, il riferimento a un alto prelato della famiglia Barbarigo (o Barbadico), tra le più prestigiose casate patrizie della Serenissima, non trova alcun riferimento cronologicamente, o anche solo fisionomicamente, plausibile. Dal punto di vista attributivo la pista più solida sembra indirizzare verso Benedetto Caliari, fratello di Paolo Veronese, qui al suo meglio. Sebbene della sua produzione ritrattista, che non dovette essere così sparuta, non rimangano oggi che rare testimonianze certe, si può chiamare a supporto dell'attribuzione a Benedetto del nostro dipinto il notevole Ritratto di Tommaso Giunta del 1563 (Hermitage, San Pietroburgo), affine al nostro per stile, composizione e intonazione espressiva.