Il “Paese Eremita”.
Questo è il nomignolo con cui ancora alla fine dell’Ottocento gli europei definivano la Corea, rimasta consapevolmente isolata dal resto del mondo per un lunghissimo periodo.
La conoscenza di allora in Europa sulla storia, i costumi e le manifestazioni artistiche del popolo coreano si limitava dunque alle scarne notizie riportate per primo da Marco Polo nel Milione, e poi dai gesuiti che svolsero la loro missione in Cina e in Giappone dal XVI secolo, tra cui Matteo Ricci che si trovava in Asia quando nel 1592 il generale giapponese Toyotomi Hideyoshi mise in atto un violento tentativo di invadere la Corea. Da allora, furono redatti numerosi resoconti sulla penisola, dapprima piuttosto vaghi, se si pensa che la prima descrizione corretta della geografia di quel territorio risale solo al 1655 con la carta geografica inserita da Martino Martini nel Novus Atlas Sinensis. Notizie più circostanziate si trovano invece nel testo intitolato Description of the Kingdom of Korea (1668), compilato dall’olandese Hendrick Hamel che visse da prigioniero in Corea dal 1653 al 1666, dopo che la sua nave aveva casualmente naufragato nei pressi della penisola.
Il primo passo verso l’apertura della Corea fu la stipula nel 1876 di un trattato di tipo moderno con il Giappone, anch’esso appena uscito da un isolamento secolare. Nel volgere di pochi anni, gran parte delle nazioni del mondo entrarono in contatto con il governo di quel paese ancora misterioso, e furono firmati molti accordi che nella gran parte dei casi erano sfavorevoli ai coreani, i quali avevano tuttavia urgente necessità di confronto per tentare di superare una situazione sociale ed economica disastrosa. Un passo importante fu la costruzione nel 1883 del porto di Chemulpo (attuale Incheon), non lontano da Seoul, presso il quale cominciarono ad arrivare sempre più numerosi gli stranieri, tra cui molti viaggiatori in cerca di luoghi sconosciuti da esplorare. Nel corso di pochi decenni, fino all’occupazione giapponese del 1910, furono pubblicati centinaia di volumi sulla Corea, grazie ai quali la conoscenza su quel lembo di terra divenne più circostanziata. Il testo di Isabella Bird Bishop intitolato Korea and Her Neighbours (Londra 1898) riscosse un grande successo, per il suo approccio che miscelava divulgazione e ricerca antropologica. Inoltre, ci pare in questo contesto interessante menzionare Corea or Cho-sen: the land of the morning calm di Henry Arnold Savage Landor, pubblicato nel 1895 sulla base dei ricordi di un viaggio del 1889. Nato nel 1865 a Firenze in una famiglia di origini angosassoni, appena ventenne Savage Landor partì per un lungo viaggio in giro per il mondo con velleità artistiche. Tuttavia, in Asia estremo-orientale egli si scoprì narratore: cominciò allora a scrivere libri sui suoi viaggi che spesso illustrava con riproduzioni di suoi quadri e disegni, eseguiti in uno stile macchiaiolo e con una marcata attenzione per l’aspetto narrativo.
Fino ai decenni finali del XIX secolo, le conoscenze sull’arte coreana erano perciò praticamente nulle, e spesso gli intellettuali occidentali del tempo liquidavano la questione degradando le manifestazioni artistiche della penisola a rustiche filiazioni dell’arte cinese oppure a modeste rielaborazioni dell’estetica giapponese. Stephen Bushell, autore di un pionieristico volume sulla ceramica orientale (1899), semplicemente elise la sezione sulla Corea, poiché ritenuta priva di interesse, a suo scrivere.
D’altronde, ai suoi tempi – mentre già molto si conosceva dell’arte cinese e si stava allora aprendo la strada per l’apprezzamento delle arti giapponesi – l’arte coreana era davvero cosa per pochi, pochissimi intenditori. Si pensi, ad esempio, che il primo manufatto coreano a entrare nelle collezioni del British Museum fu un vaso in ceramica nera donato nel 1888 da W.G. Aston che aveva vissuto come diplomatico in Asia tra il 1884 e il 1886 (inv. 1888,1221.2). In quello stesso anno Charles Varat si recò in Corea per conto del governo francese, il quale solo due anni prima aveva firmato un trattato pacifico con la Corea, dopo i violenti scontri del 1866 in conseguenza dell’uccisione di sette missionari cristiani da parte dei coreani. Con l’aiuto di Victor Collin de Plancy, primo diplomatico francese a essere inviato a Seoul, Varat esplorò zone interne della penisola mai viste prima da un europeo. Al ritorno in Francia, la collezione che aveva acquisito andò a formare la prima sezione di arte coreana dell’allora costituendo Musée Guimet. Lo studio di questa raccolta fu affidato a Hong Jong-u, il primo coreano a mettere piede in Europa, dove giunse nel seguito di Emile Guimet che si era recato in Giappone nel 1876 insieme al pittore Félix Régamey.
A questi primi nuclei musealizzati, seguirono nel 1900 l’organizzazione di un padiglione coreano presso l’Esposizione Universale di Parigi, allestito con pezzi provenienti da Seoul e opere dalla collezione privata di Collin de Plancy, e nel 1910 l’inaugurazione della prima mostra di arte coreana a Londra.
Ancora fino alla fine della Seconda Guerra, pochissime erano le collezioni pubbliche e private di arte coreana in Europa e negli Stati Uniti. Alle più antiche sopra citate, si possono ricordare quella dei coniugi Fischer ora nel Museum für Ostasiatische Kunst di Colonia, assemblata nei primissimi anni del Novecento mentre risiedevano tra Giappone e Corea, e quella di George Eumorfopoulos, collezionista e sopraffine conoscitore di arte estremo-orientale, il quale esponeva con orgoglio opere d’arte coreana nella sua casa-museo di Londra negli anni Venti-Trenta del XX secolo, poi confluite nelle raccolte del British Museum e del Victoria & Albert Museum.
Le altre maggiori collezioni di arte coreana prima private e poi cedute a istituzioni museali al di fuori della penisola asiatica, furono assemblate dunque per lo più nella seconda metà del Novecento, tra cui la raccolta Henderson a Harvard, la collezione Poulsen-Hansen nel British Museum e la raccolta Kalbak nel National Museum di Copenhagen e nel National Museum di Stoccolma.
Dal punto di vista della storia del collezionismo, l’arte coreana in Italia ha purtroppo ben poco da raccontare, se si eccettua l’interessante nucleo conservato presso il Museo di Arte Orientale di Roma. La sua origine risale al 1960, con il dono di alcuni oggetti da parte della Repubblica di Corea, ai quali si aggiunsero in quello stesso anno i pezzi conferiti da Giacinto Auriti, che era stato ambasciatore in Giappone prima della Seconda Guerra, in seguito sporadicamente accresciuta grazie ad acquisti e donazioni.
Scrivere di arte coreana senza fare i conti con il suo vicino ingombrante, è cosa ardua, o meglio impossibile. D’altronde, non c’è cultura dell’Asia orientale che in un modo o nell’altro, con maggiore o minore intensità, non abbia avuto relazioni con l’impero cinese. Tuttavia, pur dando per assodato l’introiezione del dato culturale e artistico dalla Cina, si possono evidenziare i caratteri specifici di ogni singola tradizione. In altre parole, il Giappone è per certi versi ‘figlio’ della Cina, ma mostra una sua ‘giapponesità’ che è frutto di secolari rielaborazioni e riflessioni, e questo vale per il Vietnam e la Mongolia. Riguarda sicuramente anche la Corea, nonostante – per questioni più squisitamente geografiche – essa abbia subito l’influenza della Cina in maniera più decisa.
Diversa è invece la questione dei rapporti culturali tra Corea e Giappone, poiché sembra ormai condivisa la nozione che sia stata la Corea a stimolare la produzione artistica giapponese, e non il contrario, sebbene dal punto di vista politico, in più occasioni e per più periodi nel passato, l’impero nipponico abbia dominato il popolo coreano.
Che cos’è, dunque, che distingue l’arte coreana dall’arte dei suoi vicini colossi culturali, in primis la Cina? Una ‘coreaneità’ esiste? O è solo una forzatura intellettuale?
Si può tentare di dare una risposta a questo non facile quesito analizzando la storia della ceramica coreana, poiché essa è uno degli ambiti artistici che meglio esprimono la raffinatezza dell’estetica di quel paese ed è, inoltre, l’area su cui si sono concentrati gli interessi di molti dei collezionisti di arte coreana in Europa e negli Stati Uniti a partire dal tardo Ottocento.
La storia della ceramica in Corea inizia molto presto, alcuni millenni prima dell’era cristiana. Tuttavia, indizi di una ricerca estetica si possono far risalire solo al cosiddetto periodo dei Tre Regni (300-668), durante il quale si produssero suppellettili destinate all’uso funerario in una ceramica dalla pasta grigia priva di invetriatura, dalle forme eleganti sulle quali si dispongono semplici ma raffinati decori ‘a pettine’, motivi ondulati o tratti diagonali. Caratteristiche che richiamano certamente la coeva produzione giapponese denominata sueki, a testimoniare delle strette relazioni che già allora intercorrevano tra i due paesi.
Questa produzione costituisce il punto di partenza delle successive evoluzioni del periodo Silla Unificato (668-935), durante il quale si amplia e diversifica il repertorio decorativo e fa la sua prima apparizione una vetrina di tonalità verde che diventa in epoca posteriore una nota ricorrente. L’introduzione dell’invetriatura céladon è sicuramente un debito nei confronti della produzione cinese, nella quale essa compare nel I millennio a.C. per poi rimanere una costante fino a epoche recentissime.
Proprio nell’ambito della ceramica con invetriatura verde la Corea darà un notevole contributo nel periodo Goryeo (918-1392), a partire dalla fine del X secolo. I céladon coreani di quest’epoca, e in particolare del XII-XIII secolo, sono sicuramente un traguardo estetico, importante non solo per la storia della ceramica coreana. Destinati inizialmente a uso esclusivo della corte e prodotti nei forni di Gangjin e Buan, i céladon Goryeo si caratterizzano per una vetrina di una tale intensità cromatica che gli stessi cinesi ne rimasero affascinati, come riferì tra gli altri l’inviato Xu Jing nel 1123 nel suo Xuanhe fengshi Gaoling tujin (“Descrizione illustrata dell’ambasceria in Corea durante il periodo Xuanhe”), che non esitò a paragonarli alla celebrata ceramica Ru e affermando che essi hanno “la radiosità della giada e la purezza cristallina dell’acqua”.
Alla brillantezza della coperta feldspatica – ottenuta con una cottura in estrema riduzione atmosferica e alla temperatura di oltre 1300° – i ceramisti coreani affiancarono col tempo decori ottenuti con l’intarsio di ingobbio bianco, oppure nero, tecnica mai prima di allora sperimentata in Asia, ravvivando in certi casi il tutto con l’aggiunta di tocchi di rosso di rame, un’altra delle numerose innovazioni introdotte in epoca Goryeo.
Al successo di questa straordinaria produzione contribuì senza dubbio un repertorio di forme di eccezionale eleganza, nelle quali prevale una linearità semplice e sobria, meno angolosa e più morbida rispetto al vasellame cinese, sia nelle forme aperte – ciotole, piatti – sia in quelle chiuse (bottiglie, vasi e versatoi). Lo slancio dinamico e armonioso di alcuni di questi esemplari non teme il confronto per bilanciamento delle proporzioni anche con alcune sublimi invenzioni di epoca Song (960-1279), periodo che segna per certi versi l’apogeo dell’arte ceramica cinese.
Ancora alla Cina, in particolare alla produzione settentrionale denominata Cizhou, si rifà un’altra variante della produzione ceramica coreana di epoca Goryeo, realizzata in fornaci diverse da quelle in cui si producevano i céladon, caratterizzata da una invetriatura verde certamente meno brillante, sotto la quale si dispongono vivaci decori floreali dipinti a smalto bruno di ferro, di una compattezza compositiva che a volte supera per originalità i modelli cinesi.
Le forme più caratteristiche del vasellame a vetrina céladon si ritrovano anche in una parallela produzione coreana in ceramica nera, non destinata alla corte ma parimenti notevole nei risultati raggiunti, che se da un lato è proseguimento della tradizione del periodo Silla Unificato, d’altro canto segna ormai il completo assorbimento nel repertorio ceramico di stilemi autoctoni. Tant’è che analoghe forme si ritrovano parimenti nei bronzi di epoca Goryeo, quasi esclusivamente destinati al clero. D’altronde, la parte finale di questo periodo è contrassegnata da un progressivo allargamento dei fruitori di ceramica di qualità. Anche il vasellame céladon poté essere acquistato da fasce più ampie della popolazione, una sorta di ‘democratizzazione’ che ebbe però come risultato un certo impoverimento qualitativo e la conseguente ricerca di nuove soluzioni tecniche e formali.
Con l’instaurarsi della dinastia Joseon (1392-1910) venne in auge un tipo di vasellame noto come buncheong (letteralmente “ceramica di color verde chiaro”), termine coniato dallo studioso Ko Yu-sop negli anni Trenta del Novecento a identificare manufatti di fattura in generale più grossolana rispetto ai prodotti di epoca Goryeo, nonostante fossero anch’essi rivestiti di invetriatura céladon e il decoro si realizzasse prevalentemente lavorando – a intaglio, a incisione, a stampo, a stesure pittoriche (anche in bruno di ferro) e a sgraffio – l’ingobbio bianco che rivestiva il corpo ceramico. Tuttavia, pur essendo meno fine, la ceramica buncheong – la cui produzione si interruppe bruscamente alla fine del XVI secolo a causa delle invasioni giapponesi – incarna perfettamente un’estetica più propriamente coreana, nella quale l’apparenza rustica finale tradisce in realtà un’assoluta padronanza dei mezzi tecnici allora disponibili.
Secondo fonti del XV secolo, a quei tempi le fornaci in cui si realizzava la ceramica buncheong erano ottantacinque, mentre centotrentasei erano quelle – ubicate prevalentemente a Gwangju nella provincia di Gyeonggi – in cui si produceva porcellana bianca, anche questa inizialmente destinata a uso esclusivo della corte, e in particolare per il servizio nei complessi rituali neoconfuciani che scandivano l’amministrazione della cosa pubblica. I ceramisti coreani appresero i modi per produrre porcellana sicuramente dalla Cina, dove le fornaci di Jingdezhen avevano cominciato a cimentarsi con questo speciale materiale verso l’inizio del XIV secolo, durante la fase centrale della dinastia mongola degli Yuan (1279-1368).
Si trattava di una produzione complessa e costosa, soprattutto se il decoro era applicato utilizzando lo smalto ricavato dal blu di cobalto che, nei primi decenni della dinastia, proveniva dall’Asia centrale. La scoperta nel 1464 di una vena locale di questo minerale permise un radicale ridimensionamento dei costi ma rigide leggi suntuarie proibirono l’utilizzo di questo prezioso vasellame al di fuori della corte, almeno fino al tardo Settecento. Questa situazione stimolò l’avvio – nel periodo immediatamente successivo ai tentativi di invasione mancesi nel quarto decennio del Seicento – di una più economica, ma parimenti intrigante, produzione di vasellame in porcellana con decoro a smalto bruno di ossido di ferro. Nell’Ottocento, non di rado, le due tonalità si combinano in un unico oggetto con effetto d’insieme piuttosto notevole. Più rara, per le difficoltà insite nella sua realizzazione, risulta invece la porcellana adornata sotto vetrina a smalto rosso di rame, la cui brillantezza contrasta in maniera entusiasmante con il candore della pasta ceramica.
L’austera porcellana bianca di epoca Joseon rappresenta un altro dei punti apicali della produzione ceramica coreana. Sia priva di decorazioni, sia dipinta in blu di cobalto o rosso di ferro, essa esprime l’eccellente livello tecnico ed estetico raggiunto dagli artigiani coreani. L’oggetto che più incanta per la straordinaria forza propulsiva formale che emana è sicuramente la grande giara globulare, poeticamente nota come ‘Moon Jar’ poiché – nei migliori suoi esemplari – le misure dell’altezza e del diametro corrispondono perfettamente, dando l’impressione di una luna piena. Non se ne trova di oggetti del genere nei repertori dei ceramisti dei paesi vicini alla Corea, né in Cina né in Giappone. Così come perfettamente riconoscibile è lo stile corsivo e automatico delle decorazioni in blu e bruno, nonostante i temi degli ornati siano molto spesso di origine cinese, come il drago, la fenice e tutti quei motivi vegetali – come il bambù – strettamente connessi con la dottrina confuciana.
A stimolare lo sviluppo di un’estetica più propriamente coreana nell’ambito della produzione ceramica di epoca Joseon ha contribuito senz’altro la pressoché esclusiva destinazione interna del vasellame, al contrario di quello che accadeva in Cina e in Giappone dove si realizzavano grandi quantità per l’esportazione. A posteriori, dunque, si può perciò affermare che l’isolamento in cui periodicamente si è chiusa la penisola abbia in realtà incentivato riflessioni più intime e originali nell’ambito dell’arte della ceramica.
La purezza della linea, riflesso di una evidente predilezione per gli effetti di ombra e luce scaturiti dalle morbide inclinazioni di pareti vetrificate non uniformemente, quasi un invito ad abbracciare non metaforicamente l’oggetto per carpirne il calore che le mani del ceramista prima, l’intervento del fuoco dopo, e l’impressione della storia hanno trasmesso; la moderazione di un decoro mai sopra le righe, classico nel suo meditato e lirico avvicendarsi di brani pittorici, scarnificazioni e tagli; l’illusione della leggerezza, quell’eterea combinazione di onde parallele, la traccia della ruota, e di quei sussulti corrivi che tracciano il segno del vetro che cola; l’ambizione di poter trascendere il colore inteso come campitura cromatica tout-court, per farne materia magmatica a racchiudere in un tono il sussulto dello spirito; l’immota ma non immobile alchimia della terra.
La ceramica coreana.
La terra.
La terra, che prende vita mentre l’aria spinge nello spazio.